La vulnerabilità genetica: assassini nati? (“La Voce” di Rovigo 25.10.2011) di Patrizia Trapella* e Luca Massaro** Il titolo, certamente provocatorio, ha un fondo di verità , processuale ed evoluzionistica. Tralasciando la seconda che si aggancia a teorie darwiniane o dawkinsiane e a conseguenti discussioni interminabili, ci concentriamo sulla prima ed esponiamo in ordine cronologico. Nel 2009 la Corte d’Assise d’Appello di Trieste ridusse la pena di un anno ad Abdelmalek Bayout, già condannato nel 2008 a 9 anni e 2 mesi di reclusione dal GUP di Udine per omicidio volontario in vizio parziale di mente, perché ritenuto vulnerabile geneticamente. Fu un’indagine sui cromosomi a determinare che il Bayout – nel 2007 aveva ucciso Novoa Perez con diverse coltellate – possedeva alcuni geni che lo rendevano più suscettibile rispetto alla popolazione a manifestare episodi di aggressività qualora provocato o espulso dal punto di vista sociale. Qualche settimana fa, il Gup di Como ha riconosciuto il vizio parziale di mente – termine tecnico giuridico per indicare che la capacità di intendere e di volere dell’imputato è grandemente scemata – a una donna di 28 anni che nel 2009 aveva ucciso la sorella di 40 anni – l’aveva costretta ad assumere un enorme quantitativo di psicofarmaci e poi le aveva dato fuoco. Stefania Albertani – questo è il nome della donna – quando era indagata a piede libero per omicidio, aveva tentato di strangolare la madre e poi di darle fuoco. Grazie ad innovative tecniche di indagini è giunta la sentenza. Esse hanno rilevato la presenza di alterazioni anatomiche in un’area dell’encefalo che ha la funzione di regolare le azioni aggressive e di fattori genetici significativamente associati ad un maggior rischio di comportamento impulsivo, aggressivo e violento. Stefania Albertani è stata condannata a 20 anni. In altre parole, le sentenze (e le neuroscienze e la genetica) indicano che ci sono soggetti che sono più vulnerabili, geneticamente parlando, di altri. Sono più inclini a commettere reati. A rigore, quelli richiamati alla memoria non sono improvvisi lampi nel ciel sereno. Sono due sentenze che vanno inserite nell’orientamento generale espresso nell’ottobre 2002 dal documento “Genetica e comportamento umano: il contesto etico” elaborato dal Nuffield Council on Bioethics. Il documento britannico afferma che le informazioni genetiche, se derivate da indagini accurate e attendibili, potrebbero essere prese in considerazione dai giudici per calcolare la pena e non per escludere la responsabilità o assolvere l’imputato. L’incontestabile originalità del risultato – l’introduzione di indagini sul DNA e sull’encefalo ai fini della verifica dell’imputabilità – presenta tuttavia applicazioni estensive dai risvolti imprevedibili: il dis-uso di tali metodiche. Non oggi né domani ma magari fra un anno o qualche anno gli esami potrebbero servire ad identificare in un bambino, particolarmente vivace a scuola o in famiglia, il futuro comportamento criminale. Una sorta di prevenzione sociale radicale: identificare gli assassini nati – non è il film di Oliver Stone del 1994 – ed espellerli dalla società poiché socialmente pericolosi. Proseguiamo nelle ipotesi irreali (quanto irreali?). Una volta accertato in diversi individui il rischio anatomico e genetico di sviluppare aggressività, impulsività e comportamenti violenti, cosa facciamo? Nulla e ci rendiamo responsabili di futuri reati o isoliamo le persone? Dove? Con quale accusa? Reato di pre-condotta criminale o di rischio criminale? E se tra i condannati di oggi, già detenuti nelle carceri, vi fossero soggetti vulnerabili geneticamente? Siamo veramente sicuri che tutti quelli giudicati colpevoli e non sottoposti ad accertamenti di questo genere – decisamente innovativi quanto costosi – non siano anch’essi affetti da vulnerabilità genetica? In definitiva, quale tipo di giustizia e di ordine sociale inseguiamo? *avvocato penalista **medico legale con master in criminologia e psichiatria forense . Entrambi membri della Harvard Associates in Police Science, Inc. Baltimore.
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